“Mangiare bene”: cosa significa davvero questa formula apparentemente ritrita? Mangiare molte aragoste innaffiate con abbondante champagne? Naturalmente no. In realtà, ironia a parte, pochi concetti sono più attuali. Mangiare bene coinvolge vari piani: la salute e il gusto (quindi anche l’estetica), la sostenibilità e l’economia “buona” (quindi anche l’etica), la tradizione (quindi anche la cultura), la tecnica (quindi anche la scienza).
Mangiare in maniera salutare significa innanzi tutto mantenere il controllo sul proprio comportamento alimentare. In termini di bilancio calorico, si tratta di acquisire tanta energia quanta ne richiede il nostro organismo per il suo funzionamento ottimale, se si è normopeso. Se si è sottopeso è necessario acquisire più energia di quanta ne richieda il nostro organismo, fino al raggiungimento di un peso corporeo corretto, e quindi stabilizzare gli introiti calorici. Se si è sovrappeso, al contrario, acquisire quotidianamente meno energia di quella richiesta, fino a ristabilire un peso normale, e quindi normalizzare e stabilizzare le entrate caloriche. Per esigenza di sintesi, questo passaggio del ragionamento potrebbe essere sintetizzato nell’espressione “mangiare nelle giuste quantità” o “mangiare il giusto”. Sulla carta sembra facile, in realtà è difficilissimo. Il terreno su cui queste attività devono svolgersi è irto di ostacoli e imprevisti i più vari; per citarne solo alcuni, abitudini alimentari sbagliate, fattori psicologici e culturali, disponibilità ed eccessiva visibilità di troppo cibo, “memoria” del corpo, e soprattutto le colossali campagne pubblicitarie dei fast food, delle bevande gassate, dei dadi da brodo, in ultima analisi delle grandi multinazionali del cibo. Se la stessa magnitudo mediatica venisse investita nell’insegnamento dei migliori costumi alimentari, di coltivazione, di allevamento, non avrebbe senso scrivere questo articolo.
Mangiare in maniera salutare significa poi ingerire le corrette quantità di macronutrienti, ossia in primo luogo lipidi, carboidrati, proteine, vitamine e sali minerali. I parametri di riferimento in questo ambito sono numerosi, il più noto dei quali è la piramide alimentare, di cui esistono varie declinazioni riferite anche a fasce diverse di popolazione (sportivi e anziani, ad esempio, hanno necessità nutrizionali intuitivamente diverse). In seno alle categorie dei macronutrienti vi sono poi fonti energetiche a cui attingere con maggiore o minore frequenza: ad esempio le proteine del pesce andrebbero assunte con maggior frequenza di quelle della carne rossa, i carboidrati della verdura con maggiore frequenza di quelli del pane o della pasta, i lipidi della frutta secca molto più spesso di quello contenuti nei latticini, ecc. Per esigenza di sintesi, questo passaggio del ragionamento potrebbe essere sintetizzato nell’espressione “mangiare bilanciato”.
I cibi d’altra parte – anche nella similitudine – non si equivalgono: le proteine di un pesce radioattivo o imbibito di mercurio non sono paragonabili nutrizionalmente a quelle di un pesce pescato in acque pulite, la carne di un pollo di allevamento intensivo non equivale a quella di un pollo biologico, ecc. Per esigenza di sintesi, questo passaggio del ragionamento potrebbe essere sintetizzato nell’espressione “mangiare sano”.
Il motore che mediamente ci muove verso il cibo – o in altre parole la strategia di sopravvivenza che la natura ha predisposto per il regno animale – è la fame, il soddisfacimento della quale ingenera piacere. Assecondare la fame diventa in questo senso una forma di ricerca del piacere e del gusto. L’uomo, sublimando questo concetto, ha fatto del soddisfacimento dello stimolo della fame un’esperienza appagante per tutti i sensi: gusto ma anche vista, olfatto, tatto, perfino udito. Ma il cibo non è solo sensualità: è anche status symbol, da sempre, e non solo verso gli altri ma anche auto-riferito. Mangiare i cibi ritenuti migliori, in contesti e con modi raffinati, dimostra in primo luogo a noi stessi che la povertà è lontana, che ce l’abbiamo fatta, è la prova incontrovertibile dell’appartenenza a circoli che fanno gola a molti: di coloro che sanno stare a tavola, dei raffinati, dei cultori, dei conoscitori, dei privilegiati. In una data epoca e in dato un luogo, ricchezza ha significato mangiare cibi esotici, in altri avere due panettoni a natale, o ancora mangiare cibi guarniti con oro alimentare. Johnny Depp nei primi anni ’80 era sempre a corto di denaro, si arrangiava come poteva facendo il muratore, il benzinaio, il meccanico, il venditore telefonico di penne e spazi pubblicitari; oggi beve solo grandi Bordeaux, di quelli che un appassionato incrocia – se va bene – una o due volte in una vita, e beve probabilmente troppo. Ma non è questa la grande distorsione, che vedremo tra poco. Mangiare con gusto dunque coinvolge biologia, sociologia, psicologia, storie personali, influssi ambientali. Se a livello d’immagine e di status il massimo oggi fosse bere distillato di pesce, probabilmente Johnny Depp berrebbe distillato di pesce. Oltretutto l’appropriazione della definizione del “gusto” è il primo bersaglio delle campagne pubblicitarie, la pietra filosofale di chi intende orientare gli acquisti. Mangiare con autentico gusto richiede diversamente una rara connessione con sé stessi, la capacità di esprimere – tra troppe sovrastrutture – il vero sé, il proprio gusto, quand’anche (o meglio ancora se) semplice, sensato e poco alla moda.
Sostenibilità significa che il cibo deve avere costi accettabili per il mondo. Se comporta consumo di suolo, di acqua, di lavoro mal pagato e prestato in condizioni disumane, di idrocarburi altamente inquinanti come i carburanti delle navi, grandi spargimenti di antiparassitari, antifungini, fertilizzanti, ecc., i costi del cibo che ingeriamo non sono accettabili.
L’economia “buona” è quella che tiene bassi i costi pasto consentendo a quante più persone possibile di accedere a un cibo sano, di qualità, gustoso, nella corretta quantità e molto spesso questo passa per l’effettuazione di acquisti di cibo di stagione e locale. L’economia buona rispetta le comunità, le persone, e la terra. L’economia buona riparte dalle persone e percorre la via inversa, riparte dalle persone che cessano di mangiare carne di animali provenienti da allevamenti intensivi, banane lontano dai tropici, pere Argentine e meloni in gennaio. La grande distorsione è proprio nella logica del profitto e della concentrazione, con più del 70% dei prodotti fitosanitari per l’agricoltura e più del 60% delle sementi a livello globale controllati da tre sole aziende, il 90 % del mercato globale dei cereali controllato da soli quattro gruppi mondiali, il 37,5 % della quota di mercato mondiale delle prime 100 aziende di cibo e bevande posseduto dalle 10 più grandi e i 10 più grandi rivenditori di generi alimentari che coprono il 29,3% delle vendite mondiali (Fonte: Coldiretti). È la massimizzazione perversa del profitto a non essere buona, né economica. È vantaggiosa per pochi e distruttiva per tutti gli altri. In parole infantili, per mettersi in tasca dieci, le multinazionali producono danni per cento in casa d’altri, di tutti gli altri. L’economia buona, praticamente, oggi non esiste.
Il recupero della tradizione e l’acquisizione di conoscenze tecniche tradizionali e innovative a livello dei consumatori finali, la formazione e la diffusione di una cultura alimentare e del mangiare bene, potrebbe essere il grimaldello per scardinare dal basso questo sistema.
Scienza e cultura devono contribuire a creare un sistema economicamente e ambientalmente virtuoso e non mostruosamente sbilanciato in cui il cibo è sostenibile, appagante e sano, e disponibile per tutti e fruito in maniera bilanciata e nelle corrette quantità. Mangiare bene è una conquista di là da venire, in un mondo che conta un miliardo di persone sottoalimentate e altrettanti obesi, e in cui il cibo prodotto e in gran parte sprecato basterebbe per sfamare tutti, ma non per farli mangiare bene giacché la gran parte di questo cibo è prodotta malamente, senza visione, senza etica, e con l’unico orientamento del massimo profitto per pochi, con un prezzo eticamente, ambientalmente e anche economicamente inaccettabile, riversato su tutti gli altri.
Mangiare bene dunque sembra facile ma è quasi impossibile. Uno sportivo forse mangia nelle giuste quantità ma difficilmente mangerà bilanciato (ad esempio dando netta preferenza alle proteine), e quasi certamente non mangerà sano (ad esempio nutrendosi di grandi quantità di carne di polli allevati in batteria). Un obeso o comunque una persona soggetta a disordini alimentari non mangerà nelle giuste quantità, né bilanciato, né sano. Anche un ricco, seguito da un nutrizionista e che mangia solo cibi biologici, mangerà bene solo in parte, giacché quel tipo di alimentazione non è economicamente sostenibile per tutti: se sulla terra si producessero solo cibi biologici, il suolo non basterebbe per nutrire tutti, e in pochi potrebbero permettersi di accedere al cibo; c’è di buono che questo tipo di allevamento e coltivazione, quando praticati correttamente, hanno un ridotto impatto ambientale. In pratica, l’agricoltura e l’allevamento biologico ci fanno “guadagnare tempo” e indicano una strada, mettendo a punto pratiche che andranno per quanto possibile applicate alle grandi coltivazioni e ai grandi allevamenti (che con ogni probabilità dovranno diventare meno grandi).
Mangiare bene dunque significa (o meglio significherebbe) mangiare il giusto, mangiare bilanciato, mangiare sano, mangiare con gusto cibi sostenibili ed economici (in senso positivo); in ultima analisi, significa salvare sé stessi, e in certo senso il mondo.
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